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sabato 25 febbraio 2017

Commedia dell’arte: Maschere (1)


Un articolo di Daniela (Luna Nera)






Le maschere della “Commedia dell’Arte" sono nate come espressione goliardica e rappresentativa delle caratteristiche del popolo, a seconda della sua regione o città d’appartenenza. Ne esistono davvero molte, nate in periodi diversi, a partire dal 1500 in poi. In questo post conosceremo alcune di esse dalle più rappresentative a quelle poco note, ma non per questo meno affascinanti. Inizierò col raccontare della Maschera (GIANGURGOLO) che rappresenta la mia terra, la Calabria e farò un confronto con il suo alter-ego ( IL CAPITANO/Capitan Spaventa) maschera rappresentante un’altra bellissima terra di mare la Liguria. Proseguirò con (PEPPE NAPPA, maschera della splendida Sicilia e l’immancabile (PULCINELLA, maschera Partenopea). Concluderò questo primo post dedicato alle Maschere del Carnevale con (PASQUARIELLO: maschera romana, forse meno nota rispetto a MEO PATACCA E RUGANTINO).




GIANGURGOLO
Larga popolarità ottenne in Europa, negli anni del predominio spagnolo (secoli XVI e XVII) la maschera del Capitano valoroso e spaccone, che assunse volta a volta i nomi di Spavento, Spezzaferro, Spezzamonti, Fracassa, Bombardone. Giangurgolo, cioè Giovanni dalla grande gola, è il tipo calabrese del Capitano, anche se il suo cappello a punta, il naso aguzzo e l’atteggiamento dinoccolato già si ritrovano nella figura di un antico mimo di quella regione, rinvenuta in una incisione su onice alla fine del Medio Evo. La decadenza degli Spagnoli, l’invenzione delle armi da fuoco, la nuova concezione della guerra sulla base non più di scontri individuali, ma di eserciti di massa, finiscono col ridurre gradualmente, nella fantasia popolare, la figura dell’eroe a una sorta di macchietta che nasconde, sotto di scorsi da « bravo », una caricaturale dose di paura. A Giangurgolo piacciono le donne, però, sovente, egli si astiene dal corteggiarle perché teme trattarsi di uomini travestiti ha un appetito insaziabile, ma arriva a digiunare quattro giorni consecutivi perché non ha un soldo in tasca e non vorrebbe che il rifiuto di un piatto di maccheroni costituisse un’offesa tale da costringerlo a battersi. « Quando io cammino — dice Giangurgolo — la terra trema sotto i miei piedi. E io cammino sempre…. ». Però, non appena si profila alla cantonata un gendarme, o un ragazzino gli grida un frizzo alle spalle, la maschera dimentica il nobile lignaggio e il conclamato valore e corre a nascondersi con una comica agilità che ha destato per secoli l’ilarità delle platee calabresi. Con gli umili, invece, si comporta da gradasso: ordina lasagne e salami in quantità degne di Gargantua, e guai a chi accampasse la pretesa di veder saldato il conto. Riferiscono i commenti dell’epoca che, a rovesciar Giangurgolo per i piedi, dalle sue tasche non uscirebbe un grano (cioè quattro centesimi) a questa maschera si può dunque ricondurre l’espressione scherzosa, frequente nelle riviste, per la quale arricchire si dice far grano.




IL CAPITANO/Capitan Spaventa

Fin dall’antichità classica il Teatro non mancò di annotare la facilità con la quale il reduce è indotto a ingigantire, raccontandole, le sue prodezze sul campo di battaglia; alle ingenue platee piaceva anche la figura iperbolica del temerario che demoliva con uno sguardo una cinta di mura, e al cui fascino non resistevano le dee. Dall’incontro tra marzialità e satira è derivato quel carattere di Capitano che si ritroverà, volta a volta, nelle maschere di Spavento, Fra cassa, Matamoro, Spezzamonti, Spezzaferro, e, per il teatro tedesco, nella figura del Capitano Horribilicribrifax. Dal Rodomonte dell’ « Orlando Furioso », un autentico eroe ironizzato dalla fantasia dell’Ariosto, si arriverà, a forza di caricatura, alla maschera dello stupido, illuso d’essere temerario e irresistibile (Capitan Babbeo), o alle figure pura mente comiche del Vappo napoletano, del calabrese Giangurgolo, del romano Rugantino che, diventato gendarme, vorrebbe arrestare a suo arbitrio, finisce bastonato, ma se la cava esclamando: « Me ne hanno date, però quante gliene ho dette ». Quando gli eserciti del re di Spagna percorsero l’Europa, la maschera del Capitano, una delle più popolari in Italia. Francia e Inghilterra, diventò ufficiale spagnolo con grandi baffi e naso marcato, erede di quel Matamoro che vestiva i valletti con la stoffa dei turbanti tolti tagliando a fu di spada le teste degli infedeli, e che un giorno riuscì a catturare il sultano scavalcando le mura di una fortezza e trascinandoselo dietro per la barba; tale fu la quantità di frecce che, senza ferirlo, andarono a conficcarsi nella corazza del Matamoro, che i suoi compagni d’armi, incontrandolo, lo scambiarono per un porcospino.






PEPPE NAPPA

Carattere del Pagliaccio, i cui primi lineamenti già si potrebbero rilevare nelle figure di Bertoldo. Bertoldino e Cacasenno, i protagonisti del famoso libretto di (Giulio Cesare Croce, dai quali trassero motivi la maschera di Pierrot in Francia e il clown da circo in Inghilterra. si ritrova in Sicilia nella maschera di Peppe Nappa. un Pierrot esile, delicato, con un costume azzurro pallido, che sembra uscito da un quadro di Wtteau. Agilissimo e dinoccolato si direbbe che non abbia lo scheletro ha sempre un appetito formidabile e lo si trova preferibilmente in cucina, se non altro per respirarne i profumi. In una commedia – balletto, Peppe Nappa. domestico di un professore, viene mandato in guardaroba, alla fine della lezione, per ritirare gli indumenti del suo principale. Arriva trascinandoseli dietro come cenci, e quando gli vien fatto osservare che sarebbe bene ripulirli. provvede con un secchio d’acqua e una scopa come se, invece di cappello e cappotto, si trattasse di un impiantito. Esasperato da tanta stoltezza, il professore ingiunge a Peppe Nappa di calarsi i pantaloni perché gli possa somministrare una buona dose di nerbate: la maschera, rassegnata. vuole che alla punizione assistano dei testimoni, perciò corre a chiamare le ragazze più grandi. Il professore, per evitare scandali, rinuncia alla punizione e se ne va, Peppe torna in guardaroba. infila la toga nera del professore e rientra in aula spargendo il terrore tra le alunne che avevano approfittato della tregua per dar via libera ai loro innamorati. Non appena si accorgono che si tratta del domestico, le giovani coppie vorrebbero coprirlo di busse: però. temendo che vada a riferire al professore, preferiscono amicarselo offrendogli uova e maccheroni. Lo spettacolo si concluderà col matrimonio di tutti, tranne il povero Peppe Nappa che non ha trovato una ragazza disposta a dirgli di si.






PULCINELLA


Due opposti caratteri che si ritroveranno poi comicamente fusi nella maschera di Pulcinella, figurano già nelle atellane, rappresentazioni improvvisate che i Romani introdussero intorno all’anno 540 della loro città: Maccus. temperamento vivo, spiritoso, un po’ feroce, e Bucco, adulatore. fanfarone, vile, e poco rispettoso della proprietà altrui. Particolarità di questi antichi personaggi era I ‘imitazione delle stridule voci degli uccelli, donde il soprannome di pullus gallinaceus dal quale derivò Pulcinella. Questa maschera con due gobbe e il naso adunco può considerarsi la più antica del nostro Paese. Con l’avvento del Cristianesimo scomparve, insieme alle atellane, anche la figura di Pulcinella che verrà riesumata mille anni dopo, nel ‘500, dal capocomico Silvio Fiorello. Da allora questa figura ha teso, da un lato, a personificare, virtù e vizi, il borghese napoletano, ma, d’altro lato, con miracolosa simultaneità, è arrivata ad ambientarsi in tutta Europa, assorbendo le singole caratteristiche nazionali: PoIichinelle, in Francia; Punch. donnaiolo e corsaro. in Inghilterra: Pulzinella e I-lanswurst (cioè Giovanni Salsiccia in Germania: Tonelgeek in Olanda, don Christoval Polichinela in Spagna. La figura si è andata anche adattando ai più diversi ruoli: padrone, servo, domestico, magistrato, ma in nessun caso atleta: sobrio nei movimenti, freddo, lento, goffo. di poche parole, ma, quando parla, è sempre secco e mordente. Derivazioni locali della figura di Pulcinella possono essere considerati i trasteverini Meo Patacca e Marco Pepe, il bravaccio popolare napoletano Sitonno, e forse anche la caratteristica figura bolognese del Birichino.



PASQUARIELLO


Narra una leggenda che il giorno in cui venne al mondo Pasquariello, i gatti rubarono l’arrosto, la luce della can della s’affievolì per tre volte, il vino ribollì negli otri e la marmitta si riversò sulle braci. Pasquariello nacque infatti goloso, ubriacone, spacca tutto, rovina dei locali pubblici e terrore delle cucine, dissoluto non meno di Brighella, dal cui carattere Pasquariello indubbiamente deriva, ma meno lesto di lui a ricorrere alle busse o addirittura al pugnale per realizzare i propri ignobili disegni. La maschera di Pasquariello, il cui nome deriva dal famoso Pasquino, l’emblema della satira presso i romani, fu portata in Francia nel 1685 dall’attore Giuseppe Tortoriti, danzatore ed equilibrista, soprannominato Truonno, cioè tuono, perché all’estrema agilità delle movenze accompagnava una voce tale da destar brividi nelle platee. Pasquariello appartiene, come Brighella e come il francese Scaramouche, a quel carattere di domestico dissoluto e intrigante che già si espresse nel teatro dell’antichità classica con la figura dello schiavo greco Pseudolo, e che più tardi s’incrociò, soprattutto nella satira popolare, col tipo del Capitano, vile e vanaglorioso. Abilissimo in qualunque parte, Pasquariello recita come Capitano quando gli occorre costringere Arlecchino a portare all’altare la sedotta Colombina, sua parente, ma figura sovente anche come ballerino, come moro e perfino come pittore, quando Arlecchino, arricchito, esprime il desiderio di farsi fare un ritratto. Uno dei migliori interpreti di Pasquariello fu l’attore francese Cavé, detto Maillard, che fu protagonista di una disavventura coniugale rimasta famosa a Parigi. Un giorno il Cavé, trovandosi in un caffè, vide passare per la via sua moglie, una graziosa attrice che recitava nella parte di Colombina. Per farsi bello agli occhi degli altri avventori esclamò: Vedete quella donna? A me non dice mai di no ». « Nemmeno a me » soggiunse uno dei presenti. Purtroppo non mentiva.


MEO PATACCA


E' la maschera romana, che assieme a quella di Rugantino, rappresenta il coraggio e la spavalderia di certi tipi di Trastevere, il quartiere più popolare di Roma. Spiritoso ed insolente, Meo Patacca é il classico bullo romano, sfrontato ed attaccabrighe, esperto ed infallibile tiratore di fionda, ma in fondo, generoso e di animo aperto. Gli piace é vero fare lo spaccone e parlare in dialetto romanesco, in modo declamatorio, ma poi all’occorrenza non fugge. Anzi, quando ci scappa la rissa, si getta nella mischia e la sua fama é ben nota in Trastevere e in tutta Roma. A parte il suo carattere sicuramente un po’ difficile che si adombra per niente e quel suo strano modo di discutere con qualcuno, prima con le mani poi con le parole, Meo Patacca riscosse la simpatia dei suoi concittadini che affollarono i teatri romani per assistere divertiti alle sue commedie. Il suo personaggio ebbe a lungo fortuna sulle scene e pur trasformato col tempo, in un tipo più serio e meno manesco, ha mantenuto inalterati i caratteri di vanaglorioso romano, sbruffone e provocatore.



RUGANTINO

Il romanissimo Rugantino è, come i capitani, fanfarone e contaballe, ma, al contrario di quelli, rischia davvero e paga di persona. Rappresenta il “bullo romano”, disposto a prenderne fino a restare tramortito pur di avere l’ultima parola. ” Meglio perde n’amico che na buona risposta” é una delle sue frasi preferite. Quando appariva sulla scena, Rugantino era vestito da sbirro; indossava pantaloni, gilet e giacca rossi, calzava scarpe con grandi fibbie e portava un cappello a due punte. Il suo nome deriva senza dubbio da ” rugare” cioè brontolare, borbottare, come una pentola d’acqua che ribolle. Quando finisce a botte, Rugantino non si scompone, ma testardo come sempre: “Me ne ha date, ma quante gliene ho dette!” esclama!






Comedia dell’arte – riprodotto con testi di Sam Carcano dalla Collana Artistica dei Laboratori Farmaceutici Maestretti di Milano negli anni 1954-1955 . Le incisioni di Maurice Sand sono tratte da un’edizione francese del 1859. Le tavole e la descrizione qui riprodotta sono tratte da un edizione dei LABORATORI FARMACEUTICI MAESTRETTI di Milano

e da:  https://luli118961.wordpress.com/2011/03/03/2153/

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