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martedì 13 febbraio 2018

Commedia dell’arte: Maschere (3)

(Daniela)



Continua l’escursione all’interno della Comedia dell’arte; i nostri occhi quest’oggi si poseranno su altre affascinanti maschere. Partiamo da TARTAGLIA e STENTERELLO, proseguendo con TABARINO e BRIGHELLA, finiremo con l’incontrare MENEGHINO, GIANDUIA e PANTALONE. 



TARTAGLIA

La più comica delle maschere italiane trae, poco pietosamente, le ragioni della propria popolarità da due penosi difetti: l’incapacità di avviare un discorso senza balbettare, e una eccezionale miopia. Basta dunque dare la parola a Tartaglia, oppure sottrargli le lenti per destare un gioco d’equivoci tale da assicurare per un paio d’ore l’entusiasmo di una platea. Miopia e balbuzie, per coronare la comicità del personaggio, si accompagnano, nel fisico, a una pronunciata pinguedine, e nel carattere a una vera e propria vocazione all’insuccesso. Ministro del regno di Serendippe, nella favola « 11 Re Cervo » di Carlo Gozzi, Tartaglia otterrà dal mago Durandarto la formula per trasferire le anime dai morti ai vivi, sicché, innamorato della regina, approfitterà di una battuta di caccia per trasferire il re in un cervo abbattuto, e assumere a sua volta le auguste sembianze; però, com’era prevedibile, Tartaglia non soltanto non riuscirà ad ottenere, così trasformato, i favori della regina, ma, trasferitosi imprudentemente nelle sembianze di una cagnetta, finirà strangolato. L’infelice sorte del personaggio sarà più di una volta condivisa dai suoi interpreti: un Tartaglia che recitava alla corte di Spagna finì rinchiuso, e per non breve tempo, in quello stesso carcere nel quale aveva languito, negli anni della sfortuna, Cristoforo Colombo: la maschera si era permessa, nel corso di uno spettacolo. di bersagliare con poco riverenti giochi di parole il famoso conquistatore Cortes. A Bologna la figura di Tartaglia si specializzerà invece nel compito di far ridere alle spalle della legge, sicché sovente gli sarà affidata la parte del Commissario o, semplicemente, del birro, Le poche volte in cui gli sarà risparmiato l’ingombro della pinguedine, diverrà addirittura un personaggio al lampanato, col naso puntuto e prominente, ineguagliabile di jelia e malocchio.



STENTERELLO

Un doloroso sacrificio era prescritto ai giovani attori destinati, per attitudini e per figura, a sostenere la parte di Stenterello: occorreva che si strappassero gli incisivi superiori sicché ne risultasse, per quel buco nero, una deformazione della pronuncia che, nella parlata toscana arguta e spiccia. acquista una particolare comicità. Stenterello è infatti, come Meneghino e Gianduja, maschere con le quali ha numerosi lineamenti comuni, un personaggio che deve essere interpretato da attori caratteristici: la sua figura ha una fisionomia così spiccata e precisa che può essere inserita in un dramma o addirittura in una tragedia indipendentemente dall’economia dell’intreccio, per arric – chirne la vicenda, coi suoi lazzi e le sue battute, di una nota di letizia. Sostengono gli storici del teatro che Stcnterello, ai tempi d’oro di Firenze, abitava nei palazzi, era nel fior dell’età e nel meglio del suo spirito e poteva chiamarsi Machiavelli, Boccaccio o l’Aretino. La maschera delineatasi poi è il nipote, decaduto, di quei grandi spiriti, dei quali ha più che altro ereditato i vizi e le inevitabili meschinità, donde quel nome che evidentemente deriva dal verbo stentare, cioè non essere soddisfatti del proprio stato. Stenterello conserva tuttavia una signorilità che lo distingue da tutte le altre maschere italiane: le sue battute, per quanto mordaci, non cadono mai nell’indecenza e sono il frutto, piuttosto che malizia, di una saporosa ingenuità. Disordinato e discontinuo, come del resto confermano le sue calze, di foggia e colori diversi, Stenterello ha un debole per le donne, ma non essendo abbastanza paziente per far loro la corte, si mette spesso in situazioni da schiaffi. Ma ancor più forte è la sua attrazione per la buona cucina: disposto a commettere qualsiasi bassezza per una buona cena, se ne astiene soltanto perchè hanno il sopravvento in lui la paura e la pigrizia.



TABARINO

Quel mantello scuro, il tabarro, che gli emiliani di modesta condizione portano ancor oggi d’inverno in luogo del cappotto con le maniche, ha finito col prestare il proprio nome a locali eleganti di tutto il mondo, i cosiddetti tabarins, per virtù di un tipo di mercante bolognese, affatto colto, che nel ‘500 figurava sovente sulle scene con una curiosa caratteristica: cominciava le frasi in italiano, ma era costretto, per farsi intendere, a terminarle in dialetto. Quel tipo di mercante, chiamato Tabarino per via del mantello a ruota piuttosto corto, fu portato per la prima volta sui palcoscenici di Francia nel 1570 da una compagnia di comici italiani che gli affidarono le parti più disparate: domestico, padre, marito, secondo le necessità dell’intreccio. Il nome di Tabarino fu ripreso più tardi da un milanese, la cui vera identità resta tuttora imprecisata, che arrivato a Parigi nel 1618 si associò con un ciarlatano di nome Mondor e con lui cominciò a dar spettacoli all’aria aperta, preceduti da sfilate con trombe e tamburi per richiamare pubblico. Mondor, massiccio e con la voce roboante, sosteneva la parte del Capitano, Tabarino quella del fedele domestico, e la coppia ottenne un tale successo che quattro anni dopo, nel 1622, la Piazza Dauphine, dove essi solevano tenere i loro spettacoli, non bastava ormai più a contenere il pub. buco, e di Tabarino si parlava nei salotti eleganti come di un infallibile elisir contro ogni tristezza. I loro dialoghi, sapidi e audaci, che più tardi Tabarino raccolse in un vo lume intitolato Giardino, raccolta dei segreti, giochi, fa cezie e passatempi », ispirarono quegli spettacoli brevi e variati coi quali si allieta, fra i calici e le danze, la spensierata clientela dei locali notturni, che da allora presero appunto il nome di tabarins. In uno di quei locali morì, si dice per pugnalate, l’impareggiabile anonimo comico milanese.



BRIGHELLA

Lineamenti del carattere di Brighella, che si troveranno più tardi anche in Scapino, Beltrame, Truccagnino, Fenocchio. Sganarello e Frontino, cioè in tutte le figure di valletto furbo intrigante della commedia italiana e di quella francese, già si trovano in alcuni personaggi dell’antico teatro classico, come lo schiavo greco Pseudolo, o l’Epidico di Plauto: parlar mielato, maniere insinuanti, un garbo ingannatore per spillar danaro agli stolti e favori alle donne. Brighella, almeno in un primo tempo, non esita a soddisfare le sue brame, comportandosi come un bandito da strada si può esser sicuri, se l’intreccio prevede un fatto di sangue, che l’esecutore non potrà essere che Brighella. Più tardi andrà però sostituendo al coltello le armi della malizia e della destrezza, pur conservando la truce maschera, olivastra e barbuta, indice dell’abitudine al delitto, Cantante, ballerino, musico, soldato, avvocato, birro, Brighella sa insinuarsi dappertutto e conquistare quella fiducia che gli è indispensabile per colpire al sicuro. E’ dunque un domestico ideale per chi sia in grado di pagarlo generosa mente, ma abbia anche sufficiente accortezza per non restarne a sua volta imbrogliato perciò accade sovente che Brighella figuri in coppia con Arlecchino, bergamasco anch’egli, ma ingenuo e credulone, destando a gara nel pubblico il brivido e l’ilarità. Il primitivo Brighella, si trattasse di danaro o di donne, non si lasciava sfuggire un colpo; emendatasi nel tempo, la maschera andrà acquistando agli occhi del prossimo quella vena di ridicolo che è rimasta poi, accresciuta, nella figura del « figaro tutto fare », ultima anche se poco riconoscibile personificazione dello stesso carattere. Uno dei più celebri interpreti di Brighella, Atanasio Zanoni da Ferrara, uscendo una notte a Venezia da un banchetto, finì in un canale; ripescato, morì pochi istanti dopo per asfissia.




MENEGO E MENEGHINO

Già ai primi deI ‘500 si incontra a Padova nel teatro del Ruzante (1502-1542) il personaggio di Domenico, detto familiarmente Menego, tipo di contadino ingenuo e poltrone. La sua figura, soprattutto col diminutivo di Meneghino, andrà col tempo evolvendosi, fino ad assomigliare a quella del toscano Stenterello: lo stesso incontro d’ingenuità e d’astuzia, la stessa inclinazione agli amori facili e alla buona mensa, una analoga popolarità presso i rispettivi pubblici. Meneghino, come Stenterello e come il piemontese Gianduja, è uno di quei ruoli che, per la loro incisività e personalità, vengono affidati ad attori caratteristi; per quella stessa ragione, lasciando in ombra ogni altra maschera, Milano ha finito col riconoscersi in Meneghino. come Firenze in Stenterello e Torino in Gianduja. Di Menego e Meneghino, contadini scesi in città per fare il domestico, si raccontano episodi in cui la loro ingenuità supera di gran lunga quella del famoso Pierrot. Un giorno, vedendo passare per via un pittore che portava sulle spalle due ritratti, Meneghino rincasò ansante, senza aver fatto la commissione che gli era stata affidata. « Oggi non esco più — dice al padrone. — Ho incontrato in istrada un uomo con tre teste, e non mi sembra naturale. Porta sfortuna ». Un’altra volta Meneghino, mentre sta accendendo con acciarino ed esca un candeliere, si scotta un dito con la scintilla: tanto è il bruciore, che lascia cadere tutto e resta al buio. Allora cerca a tastoni la candela, va ad accenderla da un vicino di casa, e poi rientra per cercare l’accendino. « Sapevo che li avrei trovati » esclama soddisfatto, e subito se ne serve per accendere la candela già accesa. Una sola volta Meneghino passa dall’ingenuità all’astuzia. Pantalone, il suo signore, gli vede cucito all’orecchio un bottone e gliene chiede ragione con male parole. Il servo, pronto, risponde: « Devo aver sentito qualcosa di sporco ».



GIANDUJA

Questa maschera, prediletta dai piemontesi, deve il nome a una precauzione politica: fino al 1802, infatti, l’avevano chiamata Gerolamo, ma quell’anno, ai primi del nuovo secolo, i comici pensarono bene di ribattezzarlo per evitare che si potesse scorgere allusione al nome di Gerolamo Bonaparte, parente dell’imperatore. Fu per questa ragione che i proprietari del teatrino milanese « Gerolamo », dove tuttora si tengono gli spettacoli di marionette, preferirono sospendere le rappresentazioni ed emigrare altrove. Gianduja cioè Gerolamo, è originario di Caglianetto, in quel di Asti. Proverbiale è fra i contadini piemontesi la sua distrazione: un giorno il padrone lo portò con sé a una fiera, dove acquistò sette somari. « Conducili a casa » disse a Gianduja, e il servo, montato su una delle bestie, incominciò il cammino: però, strada facendo, volle per scrupolo fare un controllo e, sempre restando in sella, contò gli animali. Erano sei. Gianduja, disperato, partì alla ricerca del settimo somaro, e tanto galoppò che la sua povera cavalcatura, stremata dallo sforzo, stramazzò a terra e rotolò nella polvere il suo incauto cavaliere. Gianduja, quando si riebbe, vide sdraiato accanto a sé l’asino. « Ecco il settimo — esclamò. Ma dove ti eri cacciato? » Più tardi la distrazione e l’ingenuità’ si combineranno con una sempre più accentuata malizia e con una nota di surreale; Gianduja, inserito nello spettacolo come caratterista, finisce con l’improntare di sé la vicenda al punto che il pubblico non vede che lui. Nessuno in platea si commuove quando il principe si è perduto per amore in una foresta azzurra, ma l’ilarità non ha freno quando Gianduja, sentendo gli stimoli dell’appetito, gli chiede il permesso di fare un salto in rosticceria. «Siamo perduti» gli ricorda il principe con voce di mesto rimprovero. « Scusi tanto, credevo di essere a Cuneo ».




PANTALONE

Assai discussi sono l’origine e il nome di questa maschera veneziana, rimasta famosa anche per aver battezzato il più tipico indumento maschile: secondo taluni si tratterebbe, nientemeno, che di una caratterizzazione popolare del più antico protettore della città, San Pantaleone altri la deriverebbero invece dallo scherzoso appellativo di piantaleone, col quale venivano beffati nei porti del Mediterraneo i mercanti veneziani, inesauribili nel collocare in ogni luogo il leone di S. Marco, simbolo della loro Repubblica. Benché taluni lineamenti di questa maschera già si ritrovino nelle figure di libertini creduli, beffeggiati e eternamente malcontenti dell’antico teatro classico, e numerose analogie già si riscontrino nella figura del bolognese dottor Ballanzone e in alcuni personaggi di Molière quali Gorgibus, Arpagone e Sganarello, si può senz’altro dire che Pantalone è, nelle virtù e nei difetti, la maschera nazionale della Serenissima, prova sia che il costume mutò numerosissime volte nel tempo, ma rimase intatta la zimarra nera adottata in segno di lutto quando Venezia dovette cedere ai turchi il Negro-ponte (Eubea). Pantalone è sempre d’età avanzata, talora scapolo con tutto il ridicolo di chi, ormai maturo, vuol piacere ancora: talora padre di due ragazze, Isabella e Rosaura, oppure Camilla e Smeraldina, assai difficili da tenere a freno. Raramente povero, egli ha tuttavia figurato nei più diversi gradi della fortuna, dall’arricchito burbanzoso e sputasentenze al borghese di modeste sostanze che tuttavia non rinunzia a figurare più di quello che è. Avaro e diffidente — non a caso fu battezzato col cognome dei Bisoqnosi, – perde però ogni cautela quando gli si offre il caso di far sfoggio della sua autorevolezza, intromettendosi in dispute e alterchi, e, puntualmente, finisce col ricevere busse da entrambi i contendenti.



Comedia dell’arte – riprodotto con testi di Sam Carcano dalla Collana Artistica dei Laboratori Farmaceutici Maestretti di Milano negli anni 1954-1955 . Le incisioni di Maurice Sand sono tratte da un’edizione francese del 1859. Le tavole e la descrizione qui riprodotta sono tratte da un edizione dei LABORATORI FARMACEUTICI MAESTRETTI di Milano

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